Relazione Tuccillo in merito all’ordinanza TAR Emilia Romagna

1.
Con riferimento alla questione sollevata dal Tar Emilia Romagna, i principi in esso affermati, ferma la valutazione in ordine alla opportunità o meno dell’attivazione del giudizio, possono fungere da parametro di riferimento sulla base del quale valutare di sottoporre alla CGUE una questione pregiudiziale di compatibilità della normativa interna a quella europea nella parte in cui non estende o prevede forme di tutela assistenziale e previdenziale in favore dei magistrati tributari.
Le modalità con le quali può essere attivata la pretesa sarebbero rappresentate da una domanda giudiziale di condanna a tali emolumenti (da parte di uno o più associati ed eventualmente dell’AMT) avente ad oggetto il pagamento di un trattamento pensionistico (ad esempio) chiedendo di disapplicare la normativa interna contrastante con il diritto europeo e di applicare la disciplina prevista per gli altri dipendenti pubblici e i magistrati in particolare, con proposizione della relativa questione pregiudiziale alla CGUE.
Si potrebbe provare proporre una q.l.c. di analogo tenore.
Si potrebbe provare a proporre rinvio pregiudiziale o q.l.c. sulla misura della nostra retribuzione.
La questione sollevata dal T.a.r. per l’Emilia Romagna si pone in linea di continuità con la recente sentenza della Corte di giustizia UE, 16 luglio 2020, C-658/18, secondo cui “L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che il Giudice di pace (Italia) rientra nella nozione di «giurisdizione di uno degli Stati membri», ai sensi di tale articolo. 2)      L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di «lavoratore», ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che la nozione di «lavoratore a tempo determinato», contenuta in tale disposizione, può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato della direttiva 1999/70, deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell’ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
Merita in particolare rilevare che al par. 102, la Corte ha osservato quanto segueIn tali circostanze, spetta al giudice nazionale, in sede di valutazione dei fatti, per la quale è il solo competente, verificare, in ultima analisi, se gli importi percepiti dalla ricorrente nel procedimento principale, nell’ambito della sua attività professionale di giudice di pace, presentino un carattere remunerativo idoneo a procurare a quest’ultima un beneficio materiale e garantiscano il suo sostentamento”.
 
2.
Nel dettaglio, il T.a.r. per l’Emilia-Romagna ha sottoposto al vaglio della Corte di giustizia UE la disciplina nazionale sul rapporto di lavoro dei giudici onorari (giudici di pace), i quali – a differenza dei giudici togati – risultano “completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico” e sono inoltre assoggettati ad un regime di proroga sistematica del loro incarico a tempo determinato senza previsione, in alternativa alla trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva. In particolare, possono essere di rilievo ai nostri fini i primi due quesiti pregiudiziali da esso proposti:
“a) se gli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, le direttive n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato (clausole 2 e 4), n. 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale (clausola 4), n. 2003/88/CE sull’orario di lavoro (art. 7), e n. 2000/78/CE (artt. 1 e 2, comma 2, lett. a), in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana di cui alla legge n. 374 del 1991 ed al d.lgs. n. 92 del 2016, come costantemente interpretata dalla giurisprudenza, secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano – oltre che non assimilati, quanto a trattamento economico, assistenziale e previdenziale, ai giudici togati – completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico;

  1. b)se i principi comunitari in tema autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale, e segnatamente l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana, secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano – oltre che non assimilati, quanto a trattamento economico assistenziale e previdenziale, ai giudici togati – completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico;”

Nel giudizio dinanzi al T.a.r. un giudice di pace – che ha esercitato ininterrottamente la funzione per 14 anni – ha proposto azione di accertamento del proprio diritto alla costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo pieno (o part-time) con il Ministero della giustizia, adducendo la “parità sostanziale di funzioni con i magistrati c.d. togati”, con contestuale domanda di condanna dello stesso Ministero al pagamento delle differenze retributive maturate, oltre oneri previdenziali e assistenziali. Secondo il ricorrente, sussisterebbero elementi sufficienti per l’equiparazione del proprio status a quello dei magistrati c.d. togati, avuto riguardo sia allo svolgimento delle medesime funzioni, con il conseguente inserimento nell’organizzazione del Ministero della giustizia quale datore di lavoro e nel ruolo organico, sia all’identità dei doveri correlati alla funzione (osservanza di un orario di lavoro predeterminato e del calendario di udienza; dovere di esclusività; sottoposizione ai medesimi diversi previsti dalla legge per i magistrati ordinari, come stabilito dall’art. 10, comma 1, della legge n. 374 del 1991; sottoposizione al potere disciplinare del Consiglio superiore della magistratura), sia infine alle modalità concernenti l’erogazione della retribuzione (a cadenza mensile e con distinzione tra una parte fissa ed una variabile).
 
3.
Nell’argomentare la rimessione alla CGUE, il T.a.r. ha tra l’altro sottolineato quanto segue.
3.1.
Con riferimento alla normativa sul giudice di pace che: il giudice di pace è un giudice ordinario (art. 1 dell’ordinamento giudiziario) che appartiene all’ordine giudiziario (articolo 1, comma 2, della legge n. 374 del 1991); al pari del magistrato di carriera, “esercita la giurisdizione in materia civile e penale e la funzione conciliativa in materia civile” (articolo 1, comma 1, della legge n. 374 del 1991), è immesso in un ruolo organico ed è assegnato agli uffici territoriali secondo piante organiche predeterminate per legge (art. 3 della legge n. 374 del 1991), ed è inoltre tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari (articolo 10, comma 1, della medesima legge);  il giudice di pace è tenuto all’osservanza dei provvedimenti organizzativi speciali e generali del CSM, su parere del Consiglio giudiziario (articoli 10, comma 1, e 15, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 25 del 2006), ed è sottoposto, in caso di inosservanza dei suoi doveri deontologici e d’ufficio, al potere disciplinare del CSM (il quale,  con delibera del 14 settembre 2011, vi ha esteso l’applicabilità dell’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, inerente la responsabilità disciplinare del magistrato di carriera);  la nomina e l’esercizio della funzione di giudice di pace è incompatibile, in via assoluta, con lo svolgimento di qualsiasi altra attività lavorativa subordinata o parasubordinata, pubblica o privata (articolo 5, comma 1, lettera g, della legge n. 374 del 1991), nonché con qualsiasi incarico di natura politica (art. 8 della stessa legge), non essendo ammessa la facoltà (consentita, invece, ai magistrati di carriera) di essere provvisoriamente posti fuori ruolo per incarichi dirigenziali, extragiudiziari o politici (parlamentari, consiglieri ed assessori presso enti territoriali, uffici politici di stretta collaborazione con il Potere Esecutivo, etc..), con la conseguenza che “al di là della facoltà concessa ai giudici di pace di esercitare la professione di avvocato fuori dal circondario di Tribunale di appartenenza, e nei limiti previsti dall’articolo 8, commi 1-bis e 1-ter, l. 374/1991, sussiste un dovere di esclusività del tutto analogo agli altri dipendenti pubblici”;  il trattamento economico previsto per l’esercizio della funzione, secondo quanto disposto dall’art. 11 della legge n. 374 del 1991, “consiste nel diritto ad una indennità in misura fissa pari a (soli) 258,23 euro mensili lordi e di una in misura variabile parametrata alle udienze tenute, ai processi assegnati ed agli atti svolti, indennità che non può superare il tetto massimo di 72.000,00 euro lordi annui, dando vita ad un sistema ‘a cottimo’”; quanto alla durata dell’incarico, il decreto-legge n. 115 del 2005, convertito in legge n. 168 del 2005, ha ampliato l’originario termine di otto anni (quattro più quattro), prevedendo un ulteriore mandato di quattro anni; successivamente, numerosi provvedimenti legislativi hanno via via prorogato tale ultima scadenza, così giungendosi, da ultimo, al d.lgs. n. 116 del 2017; la legge-delega sulla riforma organica della magistratura onoraria (legge n. 57 del 2016), poi attuata dal Governo con i decreti legislativi n. 96 del 2016 e n. 116 del 2017, ha previsto, tra le altre cose, l’istituzione di “un regime previdenziale e assistenziale compatibile con la natura onoraria dell’incarico, senza oneri per la finanza pubblica, prevedendo l’acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull’indennità” (art. 2, comma 13, lett. l, regime che risulta essere stato istituito dagli artt. 23 ss. del d.lgs. n. 116 del 2017).
 
3.2. La giurisprudenza della Corte di cassazione sui giudici professionali qualifica il giudice di pace quale giudice “semiprofessionale” ed è costante nell’escluderne l’inquadrabilità nel rapporto di pubblico impiego, oltre che nella stessa parasubordinazione di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3. Il T.a.r. ha osservato che secondo questa giurisprudenza: la categoria dei funzionari onorari (in cui è compresa la figura del giudice di pace: art. 1, comma 2, della legge n. 374 del 1991) ricorre quando esiste un rapporto di servizio volontario, con attribuzione di funzioni pubbliche, ma senza la presenza degli elementi che caratterizzano l’impiego pubblico, i tratti distintivi tra rapporto di lavoro pubblico e svolgimento onorario di funzioni pubbliche sono i seguenti: 1) la scelta del funzionario, che nell’impiego pubblico viene effettuata mediante procedure concorsuali ed è, quindi, di carattere tecnico-amministrativo, mentre per le funzioni onorarie è di natura politico-discrezionale; 2) l’inserimento nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione, che è strutturale e professionale per il pubblico impiegato e meramente funzionale per il funzionario onorario; 3) lo svolgimento del rapporto, che nel pubblico impiego è regolato da un apposito statuto, mentre nell’esercizio di funzioni onorarie è privo di una specifica disciplina, quest’ultima potendo essere individuata unicamente nell’atto di conferimento dell’incarico e nella natura di tale incarico; 4) il compenso, che consiste in una vera e propria retribuzione, inerente al rapporto sinallagmatico costituito fra le parti, con riferimento al pubblico impiegato e che invece, riguardo al funzionario onorario, ha carattere meramente indennitario e, in senso lato, di ristoro degli oneri sostenuti; 5) la durata del rapporto che, di norma, è a tempo indeterminato nel pubblico impiego e a termine (anche se vi è la possibilità del rinnovo dell’incarico) quanto al funzionario onorario;
 
3.3. La normativa europea di riferimento è la seguente: la direttiva n. 1999/70/CE, che ha recepito l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, con particolare riguardo alla clausola 2 (che definisce il suo campo di applicazione), alla clausola 4 (principio di non discriminazione, rispetto alla situazione complessiva dei lavoratori a tempo indeterminato) ed alla clausola 5 (misure di prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato);  la direttiva n. 1997/81/CE, che ha recepito l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, con particolare riguardo al principio di non discriminazione rispetto al lavoro a tempo pieno; la direttiva n. 2003/88/CE, sull’orario di lavoro, con riferimento all’art. 7 (diritto al godimento di ferie annuali); la direttiva n. 2000/78/CE, sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il cui art. 2 fornisce la nozione di discriminazione; viene, infine, menzionata anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“che, ai sensi dell’art. 6 TFUE, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”),  con riferimento agli artt. 20 (uguaglianza davanti alla legge), 21 (non discriminazione), 31 (condizioni di lavoro giuste ed eque), 33 (vita familiare e vita professionale) e 34 (sicurezza sociale e assistenza sociale).
Sulla definizione quanto alla giurisprudenza comunitaria, nel ricordare che “la pur ampia nozione di lavoratore di cui all’art. 45 TFUE è enunciata al fine della tutela del diritto fondamentale di libera circolazione della ‘forza lavoro’ nel mercato comune”, il T.a.r. richiama la non univoca nozione di lavoratore quale fatta propria dalla Corte di giustizia UE, precisando che si tratta di una nozione variabile “a seconda del settore di applicazione considerato (con richiamo alle seguenti pronunce della Corte di Lussemburgo: sentenza 12 maggio 1998, C-85/96, Martínez Sala, in Guida al dir., 1998, 20, 118, con nota di LA MARCA; sentenza 13 gennaio 2004, C-256/01, Allonby, in Riv. giur. lav., 2004, II, 497, con nota di BORELLI, ed in Dir. e pratica lav., 2004, 599, con note di GHEIDO e CASOTTI).
Sul punto: la giurisprudenza della Corte di giustizia UE, ai fini dell’individuazione della sfera applicativa dell’art. 45 TFUE, si richiama costantemente a tre criteri oggettivi, desunti a) dal carattere “reale ed effettivo” della prestazione (personalmente) resa; b) dalla soggezione al potere di direzione del destinatario della stessa (in cui si esprime il vincolo di subordinazione in senso stretto); c) dalla natura onerosa della prestazione sotto forma di retribuzione (sono qui citate le ulteriori, seguenti pronunce della Corte di Lussemburgo: sentenza 31 maggio 1989, C-344/87, Bettray, in Foro it., 1991, IV, 202; sentenza 14 dicembre 1989, C-3/87, The Queen vs. Ministry of Agriculture, Fisheries and Food; sentenza 8 giugno 1999, C-337/97, Meeusen, in Notiz. giurispr. lav., 1999, 572; sentenza 23 marzo 2004, C-138/02, Collins, in Foro it., 2006, IV, 1). La nozione di “lavoratore”, ai sensi del diritto dell’Unione, “dev’essere essa stessa definita in base a criteri oggettivi che caratterizzano il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi degli interessati”, sicché “la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è [la] circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione” (sono qui richiamate le seguenti pronunce della Corte di giustizia UE: sentenza 4 dicembre 2014, C-413/13, FNV Kunsten Informatie en Media, punti 34-36, in Riv. giur. lav., 2015, II, 301, con nota di ZITTI, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 566, con nota di ICHINO, ed in Diritti lavori mercati, 2016, 143, con nota di ARENA; sentenza 21 febbraio 2013, C-46/12, L.N. c. Styrelsen for Videregående Uddannelser og Uddannelsesstøtte, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2013, 703,  con nota di MAFFEO; sentenza 10 settembre 2014, C-270/13, Iraklis Haralambidis, in Dir. maritt., 2014, 481, con nota di MUSI).
I criteri interpretativi elaborati con riguardo all’art. 45 TFUE servono a definire anche la nozione di lavoratore ai fini del principio della parità di trattamento.
Ai fini del diritto antidiscriminatorio, il termine lavoratore non può definirsi mediante rinvio al diritto degli Stati membri, bensì ha portata comunitaria (cfr. sentenza 13 gennaio 2004, Allomby, cit., punto 66), al fine di garantire il principio fondamentale di diritto dell’Unione del diritto all’uguaglianza e di preservare l’effetto utile del diritto antidiscriminatorio: secondo la Corte di giustizia UE, qualora la nozione di lavoratore facesse riferimento al solo diritto nazionale, gli Stati membri potrebbero escludere arbitrariamente alcune categorie di persone da tale tutela (sono qui richiamate: in riferimento alla direttiva n. 2008/104/CE, la sentenza 17 novembre 2016, C-216/15, Ruhrlandklinik; in riferimento alla direttiva n. 1997/81/CE, la sentenza 1° marzo 2012, C-393/10, O’Brien, in Riv. dir. sicurezza sociale, 2013, 427, con nota di DI FRANCESCO, in cui la Corte di Lussemburgo si è occupata della vicenda di un magistrato onorario inglese che lamentava l’indebito rifiuto, da parte del Ministro della Giustizia britannico, di corrispondergli la pensione di vecchiaia, precisando che, ove l’attività esercitata sia sostanzialmente identica, l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale osta a che, ai fini dell’accesso al regime della pensione di vecchiaia, il diritto nazionale operi una distinzione tra i giudici a tempo pieno e i giudici a tempo parziale retribuiti in base a tariffe giornaliere, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata da “ragioni obiettive”, che spetta al giudice del rinvio valutare).
Agli effetti del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di giustizia UE, ai fini della nozione di lavoratore subordinato “appare irrilevante la qualificazione in termini di onorarietà del servizio, dovendo tale nozione essere definita in base a criteri oggettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi degli interessati (si richiama, qui, la sentenza 9 luglio 2015, C-229/14, Ender Balkaya, in Foro amm., 2015, 1843, solo massima).
 

  1. Il T.a.r. opera, quindi, alcune considerazioni sull’attuale configurazione del rapporto di servizio dei giudici di pace, precisando che:tale rapporto di servizio, qualificato dalla legge come onorario, “non presenta gli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato e segnatamente del rapporto di pubblico impiego, essendo alle dipendenze del Ministero della Giustizia”;ne consegue “il mancato riconoscimento di ogni forma di tutela di tipo previdenziale ed assistenziale, anche in riferimento alla tutela della salute, della maternità e della famiglia oltre che del diritto irrinunciabile per qualsiasi lavoratore (art. 36 Cost.) alle ferie”; al contrario, i giudici c.d. togati o di carriera sono “titolari di un rapporto di lavoro in regime di diritto pubblico ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165”; simile situazione, a giudizio del T.a.r., non è conforme alla nozione “sostanziale” di “lavoratore” invalsa nell’ambito del diritto dell’UE, “svolgendo i giudici di pace funzioni giurisdizionali del tutto assimilabili a quelle dei giudici c.d. togati e/o comunque a quelle di un prestatore di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione”.

In proposito:  ai fini del diritto comunitario i giudici possono essere considerati “lavoratori”, ai sensi della clausola 2, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, “dal momento che la sola circostanza che i giudici siano qualificati come titolari di una carica giudiziaria non è sufficiente di per sé a sottrarre questi ultimi dal beneficio dei diritti previsti dall’accordo quadro” (cfr. la sentenza della Corte di giustizia UE del 1° marzo 2012, O’Brien, cit.); il diverso trattamento di un lavoratore a tempo parziale rispetto ad un lavoratore a tempo pieno comparabile può giustificarsi solo con “ragioni oggettive”, nozione che, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, “non autorizza a giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo parziale e i lavoratori a tempo pieno per il fatto che tale differenza di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta. Tale nozione richiede, al contrario, che la disparità di trattamento in causa risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria” (cfr., analogamente, la sentenza della Corte di giustizia UE 13 settembre 2007, C-307/05, Del Cerro Alonso, punti 57 e 58, in Foro it., 2007, IV, 617, con nota di RICCI, in Dir. relaz. ind., 2008, 233, con nota di COSIO, in Orient. giur. lav., 2007, II, 71, con nota di GULOTTA, ed in Dir. comunitario scambi internaz., 2008, 735, con nota di VALENTINI). Considerazioni di bilancio non possono giustificare una discriminazione (cfr., in tal senso, le sentenze della Corte di giustizia UE: 23 ottobre 2003, C-4/02 e C-5/02, Schönheit e Becker, in Informazione prev., 2003, 1435; 22 aprile 2010, C-486/08, Zentralbetriebsrat der Landeskrankenhäuser Tirols, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 1030, con nota di POGGIO);
Secondo il T.a.r., “La mera qualificazione legislativa di un rapporto di pubblico servizio come rapporto onorario non appare da sola ad escludere né la sussistenza, di fatto e diritto, di un rapporto di lavoro subordinato, né ingiustificate discriminazioni a danno dei lavoratori pubblici a tempo parziale e/o determinato in assenza della determinazione di criteri oggettivi e trasparenti sottesi ad un’esigenza reale di discriminazione; questo viene affermato in quanto: non si rinvengono, nella legge n. 374 del 1991, “elementi precisi e concreti che contraddistinguano il rapporto di impiego del giudice di pace”;  la discriminazione richiamata non appare idonea a conseguire un obiettivo “che sia diverso da quello di sfruttare in modo intensivo, continuativo ed a tempo pieno una forza lavoro, a costi esigui, senza approntare alcuna garanzia o tutela a fini previdenziali ed assistenziali, né garantire la continuità del servizio, ma sopperendo ad essa con indebite, ingiustificate reiterazioni di rapporti di lavoro a tempo determinato”;  obiettive ragioni giustificatrici non potrebbero essere rinvenute – a giudizio del Collegio – nell’astratta possibilità, concessa al giudice di pace, di esercitare l’attività di avvocato al di fuori del circondario; ciò, in quanto, come affermato dalla Corte di giustizia UE con riguardo ai magistrati onorari britannici, “non si può sostenere che i giudici a tempo pieno e i recorder non si trovino in una situazione comparabile a causa delle divergenze tra le loro carriere”, rilevando invece se essi svolgano o meno la stessa attività (cfr. sentenza O’Brien, cit.); né, ancora, potrebbero essere individuate come “ragioni obiettive” le differenze pur esistenti in punto di modalità di selezione, “apparendo ciò del tutto illogico oltre che sproporzionato, e non potendo ostare il mancato superamento del concorso pubblico (art. 97 Cost.) attesa la previsione di cui all’art.2126 c.c. in tema di rapporto di lavoro di fatto”; irrilevante, inoltre, è la formale qualificazione del compenso corrisposto quale “indennità”, “non potendosene invece del tutto escludere il carattere sinallagmatico, assolvendo esso la funzione di compensare i particolari oneri connessi al servizio istituzionale concretamente svolto, con un sistema parzialmente a cottimo ovvero in parte fisso ed in parte correlato alla quantità dei provvedimenti giurisdizionali emanati”.
In ogni caso, evidenzia il T.a.r., anche a voler ritenere sussistenti delle “ragioni obiettive” tali da giustificare una discriminazione fra giudici di carriera e giudici di pace, “tale differenziazione potrebbe solo consentire di escludere il diritto alla piena assimilazione e quindi l’applicabilità ai giudici di pace dello stesso trattamento economico e previdenziale dei giudici di carriera”, ma non potrebbe di certo legittimare la negazione di qualsiasi diritto “in presenza di un’acclarata attività continuativa ed a tempo pieno in regime di subordinazione”, né potrebbe consentire “la negazione della stessa sussistenza di un rapporto di lavoro di fatto ai sensi e nei limiti di cui all’art. 2126 c.c. […] e di tutti i diritti ad esso correlati, sia alla luce della normativa costituzionale e legislativa interna, sia alla luce della richiamata normativa e giurisprudenza comunitaria”: ne conseguirebbe l’affermazione del diritto ad un’equa retribuzione, del diritto alla pensione, alla tutela della salute e della maternità, nonché del diritto alla continuità del rapporto di lavoro in caso di abusiva reiterazione del rapporto a tempo determinato.
In definitiva – precisa il T.a.r. – la questione pregiudiziale investe la conformità della normativa nazionale “ai richiamati principi euro-unitari in tema di tutela del lavoratore subordinato a tempo determinato e a tempo parziale, di lotta alla discriminazione e di abusivo utilizzo dei contratti a termine, venendo altrimenti meno l’effetto utile delle richiamate direttive oltre che della stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione”; sotto tali aspetti: la questione pregiudiziale appare rilevante per la risoluzione della controversia portata dinnanzi al T.a.r., anche in relazione alla pendenza, presso la Corte di giustizia UE, di altre due questioni di compatibilità con il diritto comunitario della normativa italiana in tema di giudici onorari (si tratta: della causa C-658/18, concernente anch’essa la natura giuridica del rapporto di lavoro del giudice di pace italiano e l’eventuale contrasto tra la normativa nazionale in materia e le direttive europee in tema di lavoro; della causa C-834/19, riguardante invece i giudici onorari di Tribunale, c.d. GOT); la denunziata normativa italiana che regola lo status del giudice di pace appare, inoltre, “inidonea a tutelare […] l’autonomia e l’indipendenza della funzione giurisdizionale svolta dai giudici di pace, garantita (oltre che dagli artt. 101-110 Cost.) dall’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 6 (diritto ad un processo equo) della CEDU”, come anche emerge dalla raccomandazione del 27 novembre 2010 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, “secondo cui la giustizia in qualsiasi grado e da chiunque svolta, esige, al fine di garantire l’imparzialità, indipendenza e professionalità del giudice, il riconoscimento a tutti magistrati, siano essi onorari o di carriera, dei diritti fondamentali della continuità del servizio, di un trattamento economico sufficiente, del diritto di difesa nei procedimenti disciplinari e paradisciplinari”; del resto, pure secondo la Corte costituzionale, l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante garanzie relative al trattamento economico (cfr., sentenza 8 maggio 1990, n. 238, in Foro it., 1990, I, 3371, ordinanza 14 maggio 2008, n. 137, in Giur. cost., 2008, 1710, con nota di FABOZZI; ordinanza 23 ottobre 2008, n. 346, in Giur. cost., 2008, 3830).
 

  1. Uno dei punti critici del ricorso è rappresentato però dall’ambito applicativo della normativa UE.

Sempre secondo la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, l’esercizio delle funzioni giudiziarie e l’ordinamento della magistratura nazionale rientrano nella nozione di impiego nella pubblica amministrazione, per cui le relative disposizioni sono sottratte alla disciplina applicabile ai rapporti di lavoro privato, non rientrando invero l’ambito di specie tra le attribuzioni normative dell’Unione europea, caratterizzate dalla tassatività (artt. 4 e 5 TUE); in proposito: in conformità con quanto previsto dall’art. 5 TUE, il principio di attribuzione disciplina la delimitazione delle competenze dell’Unione (cfr. Corte di giustizia UE, parere del 7 febbraio 2006, n. 1/03, punto 124, in Riv. dir. internaz. privato e proc., 2006, 514, nonché sentenza 4 settembre 2014, causa C-114/12, Commissione contro Consiglio, punto 74, in Riv. dir. internaz., 2014, 1209); di conseguenza, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati, per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti, mentre qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.
Anche se la sentenza della Corte di giustizia UE del 1° marzo 2012, O’Brien, cit., ha affermato i seguenti principi di diritto: Il diritto dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che spetta agli Stati membri definire la nozione – contenuta nella clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, che figura nell’allegato alla direttiva 1997/81/Ce del consiglio, del 15 dicembre 1997, concernente l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’Unice, dal Ceep e dalla Ces, come modificata dalla direttiva 1998/23/Ce del consiglio, del 7 aprile 1998 – di «lavoratori (…) che hanno un contratto o un rapporto di lavoro» e, segnatamente, determinare se i giudici rientrino in tale nozione, a condizione che ciò non porti ad escludere arbitrariamente detta categoria di persone dal beneficio della tutela offerta dalla direttiva 97/81, come modificata dalla direttiva 98/23, e da detto accordo quadro, esclusione invero ammissibile solo nel caso in cui il rapporto che lega i giudici al Ministry of Justice sia, per sua propria natura, sostanzialmente diverso da quello che vincola ai loro datori di lavoro i dipendenti rientranti, secondo il diritto nazionale, nella categoria dei lavoratori”; L’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, che figura nell’allegato alla direttiva 1997/81, come modificata dalla direttiva 1998/23, va interpretato nel senso che osta a che, ai fini dell’accesso al regime della pensione di vecchiaia, il diritto nazionale operi una distinzione tra i giudici a tempo pieno e i giudici a tempo parziale retribuiti in base a tariffe giornaliere, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata da ragioni obiettive, che spetta al giudice del rinvio valutare”.
Sulla non riconducibilità del rapporto di servizio del magistrato al rapporto di lavoro di diritto comune, in ragione delle specificità legate alla funzione in quanto espressione di sovranità, con conseguente estraneità rispetto alla disciplina dell’Unione europea, cfr. di recente, in giurisprudenza: Cons. Stato, sez. V, 21 febbraio 2018, n. 1096 (in Foro it., 2018, III, 244), in tema di riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata presso la magistratura speciale al momento della riammissione a domanda nell’ordine giudiziario, secondo cui, “Posto che il rapporto di servizio del magistrato, caratterizzato da una carriera speciale di diritto pubblico e dall’esercizio di una funzione espressiva di sovranità, non può essere assimilato a un comune rapporto di lavoro, non si pone la questione di libera circolazione del lavoratore negli spazi eurounitari” (nel caso di specie, la Sezione ha affermato, tra le altre cose, quanto segue: “Posto che il principio di unità della giurisdizione va inteso come unità non organica, ma funzionale, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi e autonomi, in cui la progressione nella carriera è governata da criteri diversi, l’acquisizione presso la magistratura speciale di una qualifica superiore a quella che il magistrato avrebbe avuto permanendo in magistratura ordinaria non rileva ai fini della determinazione della collocazione nel ruolo di anzianità della magistratura ordinaria all’atto della riammissione, tornando il magistrato a riprendere la posizione che, virtualmente, mai vi ha lasciato”); Cons. Stato, sez. V, 19 febbraio 2018, n. 1035 (in Foro it., 2018, III, 245, con nota di G. GRASSO), secondo cui – sulla premessa che il rapporto di servizio del magistrato, in quanto “caratterizzato da una carriera speciale di diritto pubblico non contrattualizzato, che inerisce a una funzione espressiva di sovranità”, non può essere assimilato a un comune rapporto di lavoro ai fini dell’applicazione della normativa dell’Unione europea – “Nell’anzianità di servizio che rileva ai fini del conferimento della qualifica di presidente di sezione del consiglio di stato non può essere computata quella acquisita nella qualifica di consigliere di tribunale amministrativo regionale” (nella specie, si è ritenuto che il rapporto di servizio del magistrato, tutelato da eccezionali e specifiche garanzie costituzionali di indipendenza e inamovibilità, è estraneo all’oggetto della direttiva n. 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato); Cass. civ., sez. lav., n. 17862 del 2016, cit. (menzionata anche dall’ordinanza in epigrafe), secondo cui “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli art. 3 e 38 Cost., delle norme che disciplinano la posizione del giudice di pace, non essendo quest’ultimo equiparabile ad un pubblico dipendente né ad un lavoratore parasubordinato, in quanto la categoria dei funzionari onorari, della quale fa parte, presuppone un rapporto di servizio volontario, con attribuzione di funzioni pubbliche, ma senza la presenza degli elementi caratterizzanti l’impiego pubblico, come l’accesso alla carica mediante concorso, l’inserimento nell’apparato amministrativo della p.a., lo svolgimento del rapporto secondo lo statuto apposito per tale impiego, il carattere retributivo del compenso e la durata potenzialmente indeterminata del rapporto”.
Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, per l’affermazione dell’ontologica differenza tra i magistrati c.d. togati ed i magistrati onorari, alla luce dei principi costituzionali che disegnano un’univoca tradizione giuridica nazionale, e sulle relative conseguenze (specie in punto di remunerazione dell’attività svolta), cfr.: Corte cost., sentenza 16 febbraio 2006, n. 60 (in Foro it., 2006, I, 961, ed in Dir. e giustizia, 2006, 11, 15, con nota di AGHINA), la quale ha affermato che “la posizione dei magistrati che svolgono professionalmente ed in via esclusiva funzioni giurisdizionali non è raffrontabile a quella di coloro che svolgono funzioni onorarie, ai fini della valutazione del rispetto del principio di eguaglianza invocato dal giudice rimettente”, dovendosi disciplinare in modo diverso situazioni diverse “per evitare che un giudizio di forzata parificazione possa produrre, a sua volta, nuove e più gravi disparità di trattamento giuridico”; ha, inoltre, aggiunto la Corte: “Per tale ragione, non è possibile procedere ad una comparazione tra le cause di incompatibilità dettate dalla legge sull’ordinamento giudiziario per i magistrati ordinari e quelle previste dalla normativa speciale per i giudici di pace. In particolare, e con riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio, non è produttivo rilevare l’inesistenza, per i magistrati ordinari, di cause di incompatibilità parentale, riferite a specifiche attività professionali extragiudiziarie. Ciò per la potenziale onnicomprensività della giurisdizione ordinaria, che renderebbe arbitraria qualunque indicazione specifica di attività professionali o economiche di parenti o affini del magistrato come causa di incompatibilità per lo stesso”, non mancando, peraltro, di rimarcare che “Lo status del magistrato ordinario comprende […] una serie di guarentigie che rende meno stringente l’esigenza di tutelare la sua indipendenza con lo strumento delle incompatibilità”; Corte cost., sentenza 8 giugno 2005, n. 220 (in Foro it., 2005, I, 2252, nonché in Guida al dir., 2005, 25, 16, con nota di SACCHETTINI), la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge n. 276 del 1997, nella parte in cui prevedeva che l’indennità fissa è ridotta del cinquanta per cento qualora il giudice onorario aggregato sia titolare di un reddito da lavoro autonomo, da lavoro subordinato o da pensione superiore a lire cinque milioni lordi mensili, anziché considerare allo stesso fine l’intera situazione reddituale risultante dalla dichiarazione dei redditi – ha affermato, in motivazione, tra l’altro, quanto segue: “Muovendo dalla premessa – pacifica sia nella giurisprudenza di questa Corte sia nella giurisprudenza ordinaria – della natura non retributiva della indennità eventualmente spettante ai giudici onorari, può certamente riconoscersi al legislatore la facoltà di ancorare siffatta indennità, entro i limiti della non irragionevolezza, a parametri indipendenti da quelli, propri della retribuzione, connessi alla qualità e quantità del lavoro svolto”; Corte cost., ordinanza 8 novembre 2000, n. 479 (in Giur. cost., 2000, 3721), secondo cui “la posizione dei magistrati che svolgono professionalmente e in via esclusiva funzioni giurisdizionali e quella dei magistrati onorari non sono fra loro raffrontabili ai fini della valutazione della lesione del principio di eguaglianza”; in tale sede, peraltro, la Consulta ha negato la possibilità di effettuare alcun raffronto “tra le posizioni delle varie categorie di magistrati onorari” che operano “a diverso titolo e in diversi uffici […], trattandosi di una pluralità di situazioni, differenti tra loro, per le quali il legislatore nella sua discrezionalità ben può stabilire trattamenti economici differenziati”, giungendo, quindi, alla conclusione che “rientra […] nella discrezionalità del legislatore stabilire se e quale indennità sia dovuta ai funzionari onorari per l’opera da essi prestata” e che “dalla situazione denunciata […] nessuna lesione può derivare al buon andamento ed all’imparzialità dell’amministrazione della giustizia”; Corte cost., ordinanza 30 giugno 1999, n. 272 (in Corriere trib., 1999, 2223, con nota di GENOVESE), che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto tra l’art. 3 della legge n. 27 del 1981 e gli artt. 1 e 2 della legge n. 425 del 1984, laddove i componenti delle Commissioni tributarie sono esclusi dal beneficio dell’indennità “perché i compensi dei giudici tributari – stabiliti già in misura fissa e aggiuntiva – non sono retribuzione, ma semplici emolumenti, la cui misura – riservata al magistero del legislatore – non incide sull’indipendenza del giudice; né la loro posizione è raffrontabile con quella dei magistrati che svolgono professionalmente e in via esclusiva le funzioni giurisdizionali”.
Sulle differenze ordinamentali che sussistono tra i magistrati c.d. togati o “di carriera” ed i magistrati onorari, e sui caratteri di “specialità” che connotano quest’ultima categoria, cfr. in giurisprudenza: Cass. civ., sez. lav., 5 giugno 2020, n. 10774, secondo cui “la specialità del trattamento economico previsto per i giudici di pace, la sua cumulabilità con i trattamenti pensionistici nonché la possibilità garantita ai giudici di pace di esercitare la professione forense inducono a ritenere che non siano estensibili ai suddetti giudici indennità previste per i giudici togati che svolgono professionalmente e in via esclusiva funzioni giurisdizionali e il cui trattamento economico è articolato su parametri completamente diversi», sicché non «possono portare ad una diversa conclusione la appartenenza dei giudici di pace all’ordine giudiziario e l’attribuzione alle relative funzioni, sotto altri profili anche di rilevanza costituzionale, di tutela e dignità pari alle funzioni dei giudici di carriera», né, tra funzioni e compenso, può predicarsi un reale nesso sinallagmatico; sol rimarcandosi come la Corte territoriale, con ragionamento in sé proprio del giudice del merito, abbia ritenuto che nessuna censura di irragionevolezza della misura del compenso sarebbe anche solo ipotizzabile «considerata l’entità della soglia fissata», evidentemente ritenuta di misura sufficientemente elevata da non potersi considerare inadeguata o irrisoria”; Cons. Stato, sez. IV, sentenza 23 agosto 2010, n. 5899 (in Foro it., 2011, III, 542, con nota di ROMBOLI), che – nel dichiarare manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sugli artt. 42-ter e 42-sexies del r.d. n. 12 del 1941, “nella parte in cui preved[ono] come unica sanzione disciplinare a carico dei magistrati onorari (nella specie, GOT), quella della revoca, in riferimento agli art. 3 e 97 Cost.”, nonché “nella parte in cui non prevedono, per l’accertamento della responsabilità disciplinare dei giudici onorari (nella specie, GOT), un giudizio di merito a cognizione piena avanti ad un giudice terzo ed imparziale, in riferimento agli art. 3, 24, 105 e 111 Cost. e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” – ha evidenziato il rapporto, di natura strettamente personale, che lega i magistrati onorari all’amministrazione (alla quale è conseguentemente attribuito un ampio potere discrezionale in relazione alle vicende che coinvolgono il servizio svolto da questi giudici), nonché il carattere amministrativo del procedimento disciplinare; Cass. civ., sez. un., 10 giugno 2003, n. 9216 (in Giust. civ., 2004, I, 733, con nota di MOROZZO DELLA ROCCA), la quale ha ritenuto che, in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, l’art. 53, n. 2, del codice deontologico – secondo il quale l’avvocato chiamato a svolgere funzioni di magistrato onorario deve rispettare tutti gli obblighi inerenti a tali funzioni e le norme sull’incompatibilità – rende esplicita l’intenzione dell’ordine professionale, nell’esercizio delle proprie attribuzioni di autoregolamentazione, di considerare l’avvocato chiamato a svolgere le suddette funzioni comunque soggetto, oltre che all’obbligo di rispettare i doveri nascenti da tali funzioni, anche all’osservanza delle regole di deontologia della professione forense; pertanto, la decisione del Consiglio dell’ordine che infligga una sanzione disciplinare ad un avvocato chiamato a svolgere le funzioni di magistrato onorario, per violazione del dovere di astensione, ai sensi del citato art. 53 del codice deontologico, ed in relazione all’art. 51, ultimo comma, c.p.c., non vìola il principio di indipendenza della magistratura, sancito dall’art. 104 Cost., essendo diretta a sanzionare un comportamento tenuto da un avvocato; Cass. civ., 2 gennaio 2002, n. 16 (in Giust. civ., 2002, 1, 1019, con nota di DI PAOLA), secondo cui “La specialità del trattamento economico previsto per i giudici di pace, la sua cumulabilità con i trattamenti pensionistici nonché la possibilità garantita ai giudici di pace di esercitare la professione forense inducono a ritenere che non sono estensibili ai suddetti giudici indennità previste per i giudici togati che svolgono professionalmente e in via esclusiva funzioni giurisdizionali e il cui trattamento economico è articolato su parametri completamente diversi; né possono trarsi argomenti in contrario dall’art. 24-bis, comma 3, del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito in legge n. 4 del 2001, secondo cui ai giudici di pace ‘è altresì dovuta una indennità di lire cinquecentomila mensili per ciascun mese di effettivo servizio a titolo di rimborso spese per l’attività di formazione, aggiornamento e per l’espletamento dei servizi generali di istituto’ – in quanto tale disposizione costituisce, caso mai, una conferma della diversità e imparagonabilità dei trattamenti economici rispettivamente previsti per i giudici di pace e per i giudici togati” (fattispecie relativa al mancato riconoscimento, in favore di alcuni giudici di pace, dell’indennità prevista in favore dei giudici togati dall’art. 3 della legge n. 27 del 1981); Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2001, n. 1622 (in Guida al dir., 2001, 7, 38, con nota di SACCHETTINI), secondo cui la disciplina dei compensi per il giudice di pace è dettata esclusivamente dalle fonti che specificatamente li contemplano, dovendosi escludere ogni integrazione mediante il ricorso a regole dettate per rapporti di natura diversa e dovendosi, in particolare, escludere l’estensibilità ai giudici di pace dell’indennità prevista, per i magistrati togati, dall’art. 3 della legge n. 27 del 1981, posto che questi ultimi svolgono professionalmente e “in via esclusiva” funzioni giurisdizionali ed il cui trattamento economico è articolato su parametri affatto differenti.
Sulla compatibilità con il diritto europeo della disciplina nazionale che regola il servizio prestato dai magistrati onorari, cfr. in particolare, di recente: le conclusioni in data 23 gennaio 2020 dell’Avvocato generale J. Kokott nella causa C-658/18, instaurata a seguito di rinvio pregiudiziale effettuato dal Giudice di pace di Bologna, avente ad oggetto la questione se i giudici di pace possano essere ricompresi nella nozione di “lavoratore” del diritto UE e se, di conseguenza, essi abbiano, o meno, diritto alle ferie retribuite; in particolare, l’Avvocato generale è giunto alle seguenti conclusioni: “L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro deve essere interpretato nel senso che una giudice di pace italiana, il cui compenso è composto da un importo base minimo, nonché da indennità corrisposte per le cause definite e le udienze, deve essere considerata una lavoratrice ai sensi dell’articolo 7 della direttiva sull’orario di lavoro e ha pertanto diritto ad un minimo di quattro settimane di ferie annuali retribuite, qualora ella svolga funzioni giurisdizionali in misura significativa, non possa decidere autonomamente quali cause trattare e sia soggetta agli obblighi disciplinari dei magistrati professionali”; “Con riferimento alla durata delle ferie annuali retribuite, siffatta giudice di pace, la quale è stata nominata soltanto per un determinato periodo di tempo, è comparabile ai magistrati professionali italiani. Pertanto ella, ai sensi della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, può esigere lo stesso numero di giorni di ferie dei magistrati professionali. Il compenso durante le ferie deve essere calcolato sulla scorta del compenso normalmente versatole durante lo svolgimento delle sue funzioni di giudice”; Corte di giustizia UE, sezione VII, ordinanza 17 dicembre 2019, causa C-618/18, Di Girolamo, che (per la seconda volta, in relazione alla medesima fattispecie) ha dichiarato irricevibile una domanda pregiudiziale sollevata dal Giudice di Pace dell’Aquila – e concernente, tra le altre cose, anche il quesito “se il Magistrato Ordinario o ‘togato’ possa essere considerato lavoratore a tempo indeterminato equiparabile al lavoratore a tempo determinato ‘Giudice di Pace’, a parità di anzianità professionale di quest’ultimo con il Magistrato Ordinario, ai fini dell’applicazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, se le funzioni giudiziarie esercitate sono le stesse ma le procedure concorsuali per svolgere le funzioni sono diverse tra Magistrati Ordinari (per titoli ed esami con assunzione stabile, con sostanziale inamovibilità del rapporto a tempo indeterminato, salvo casi poco frequenti di gravissime violazioni dei doveri d’ufficio) e Giudici di pace (per titoli con assunzione a termine, rinnovabile discrezionalmente all’esito di valutazione positiva periodica dal Consiglio superiore della magistratura e revocabile immediatamente in caso di valutazione negativa dell’operato del Giudice onorario)” – rilevando il manifesto difetto di competenza del giudice rimettente a pronunciarsi sull’oggetto della causa a qua; il caso Eu Pilot 7779/15/Empl, aperto in data 16 ottobre 2015 e chiuso negativamente per l’Italia in data 9 giugno 2016 (le considerazioni della Commissione UE sono riportate in Foro it., 2018, V, 42), all’esito del quale si è ritenuto, fra le altre cose, che “per quanto riguarda lo statuto dei magistrati onorari e dei vice procuratori onorari, numerosi elementi indurrebbero a considerare tali figure quali lavoratori ai fini dell’applicazione del diritto dell’UE indipendentemente dalla qualifica attribuita a livello nazionale”; vi è, comunque, da rimarcare che, da allora, la Commissione europea è rimasta inerte e non ha aperto una formale procedura di infrazione contro l’Italia.